Pensiero |
La psicologia del pensiero si occupa delle attività mentali comprese tra la fantasticheria e il calcolo mentale, come il ragionamento deduttivo e induttivo, il giudizio probabilistico e la presa di decisione. La prima serie di problemi trattati in questo settore di ricerca riguarda il carattere, generale o specifico, dei processi di pensiero; la seconda riguarda la natura dei rapporti tra linguaggio e pensiero. Nel '900 le principali teorie sul pensiero umano hanno condiviso l'assunto che i processi di ragionamento sono basati su meccanismi generali, come ad esempio l'equivalente mentale delle regole d'inferenza della logica classica. Questa impostazione, che ha come fondamento storico la tradizionale identificazione filosofica di logica e pensiero, si è scontrata negli ultimi decenni con le teorie che presuppongono l'esistenza di capacità di pensiero legate a particolari domini di conoscenza. L'idea che il pensiero umano non sia costituito da meccanismi generali può essere fatta risalire alle dottrine frenologiche del XIX secolo e, in parte, alle teorie multifattoriali dell'intelligenza sviluppate nella prima parte del XX secolo. In tempi più recenti quest'idea è stata ripresa e aggiornata dalle teorie modulari, secondo le quali la mente umana è formata da un insieme di «moduli», cioè di meccanismi specifici, operanti indipendentemente gli uni dagli altri e organizzati in precise architetture neurali. Ognuno di questi moduli è dedicato all'elaborazione di una specifica classe di informazioni (ad es. i volti umani), quindi è «dominio-specifico». La prima, influente, versione della teoria modulare (Fodor, 1983) attribuiva ai moduli solo l'elaborazione percettiva di basso livello e considerava il ragionamento e gli altri processi di alto livello dipendenti da sistemi centrali non modulari. Negli ultimi due decenni sono state proposte nuove versioni della teoria modulare, secondo le quali anche i processi di pensiero dipendono dall'attivazione di moduli dominio-specifici. Punto di partenza di queste teorie è l'assunto che la mente umana sia un insieme di meccanismi adattativi, sviluppatisi nel corso della filogenesi. L'idea che la cognizione umana possa essere spiegata sulla base di principi evoluzionistici risale a Ch. Darwin. Tuttavia, se si escludono autori come W. James, è solo verso la fine del secolo scorso che questa prospettiva, sotto il nome di «psicologia evoluzionista», ha cominciato ad affermarsi nelle discipline psicologiche. La principale strategia di ricerca della psicologia evoluzionista è quella, detta dell'ingegneria inversa, che cerca di individuare gli scopi per i quali la selezione naturale ha prodotto un dato I ratto comportamentale. Attraverso l'applicazione di questa strategia, alcuni psicologi evoluzionisti hanno cercato di rendere conto non solo di tratti umani omologhi a quelli di molte altre specie, come ad esempio quelli riguardanti il comportamento sessuale, ma anche di capacità ritenute peculiari della specie umana, come le abilità di ragionamento. La più nota spiegazione evoluzionista del pensiero umano attribuisce un'importante classe di fenomeni di ragionamento all'azione di un modulo dedicato alla ricerca degli imbroglioni (Cosmides, 1989). Secondo questa spiegazione, senza un meccanismo cognitivo specifico dedicato alla scoperta degli individui che non restituiscono i benefici ottenuti da altri individui, le strategie di cooperazione non si sarebbero stabilizzate nel corso dell'ominazione e la stessa specie umana non avrebbe potuto evolversi come specie sociale. Le inferenze che le persone traggono nel più celebre compito della psicologia del ragionamento sono state usate per corroborare quest'ipotesi. Nel problema di selezione, inventato dallo psicologo britannico P. Wason (1966), i partecipanti devono stabilire se un enunciato condizionale di forma «Se un elemento ha la caratteristica P, allora ha la caratteristica Q» è vero o falso. La maggioranza delle persone non risolve questo problema, poiché trascura gli elementi con la caratteristica non-Q, cioè gli elementi che, qualora fossero in possesso anche della caratteristica P, tenderebbero falso l'enunciato in questione. La maggioranza delle persone, però, è in grado di risolvere il problema di selezione quando l'enunciato da controllare non è un condizionale descrittivo come il precedente, ma un condizionale deontico di forma «Se una persona vuole avere il beneficio P, deve rendere il beneficio Q». In tal caso, le persone non trascurano gli elementi con la caratteristica non-Q, cioè quelli che, se in possesso anche della caratteristica P, rappresentano una violazione del contratto sociale espresso dall'enunciato. La scoperta che le strategie di ragionamento cambiano in funzione del contenuto degli enunciati era stata inizialmente usata come prova contro la tradizionale teoria della logica mentale, secondo cui la mente umana possiede delle regole d'inferenza indipendenti dal contenuto delle premesse su cui si applicano. Recentemente, invece, molti psicologi evoluzionisti hanno usato la scoperta che le persone sono in grado di controllare regole che stabiliscono scambi di benefici tra individui, ma non regole descrittive, come prova decisiva a favore dell'ipotesi che la mente possiede un meccanismo innato per la ricerca dei potenziali imbroglioni. Tuttavia, sono state successivamente trovate prove a favore di una teoria pragmatica del ragionamento secondo la quale le soluzioni ottenute nel compito di selezione non dipendono dal contenuto degli enunciati da controllare, ma dal modo in cui questi vengono interpretati (Sperber, Cara e Girotto, 1995). In particolare, è stato dimostrato che le persone controllano correttamente non solo regole di contratto sociale, ma anche regole descrittive, se queste sono interpretate come la negazione dell'esistenza di controesempi (ad es. «Non esistono elementi P con la caratteristica non-Q »). In conclusione, l'ipotesi che esistano delle capacità di ragionamento legate a specifici domini di conoscenza, e che tali capacità rappresentino degli adattamenti, evolutivi ha avuto molto seguito al di fuori della psicologia del pensiero. Tuttavia, risulta ancora priva di adeguati sostegni empirici, probabilmente perché non è mai stata controllata con prove diverse dai problemi standard di ragionamento verbale. L'esistenza di effetti pragmatici nei processi di ragionamento ci porta a considerare due questioni collegate, relative ai rapporti tra linguaggio e pensiero. La prima riguarda la possibilità che differenze linguistiche determinino differenze nei processi di pensiero. La seconda riguarda l'esistenza di capacità di pensiero indipendenti dal linguaggio. Alla prima questione risponde affermativamente l'ipotesi del «relativismo linguistico». Si tratta di un'ipotesi basata su due assunti principali: a) le lingue naturali presentano delle differenze radicali nel modo in cui rappresentano la realtà; b) tali differenze hanno degli effetti sulla percezione e sul pensiero dei loro rispettivi parlanti. La versione debole del relativismo linguistico assume che le strutture linguistiche influenzino i processi percettivi e di pensiero; la versione forte assume che le prime determinino i secondi. Il relativismo linguistico trova le sue origini storiche nell'opposizione di alcune correnti illuministiche alle grammatiche universali del XVII secolo e nei lavori di W. von Humboldt e di F. de Saussure. Da un punto di vista generale può essere collegato a due tendenze comuni nelle scienze sociali, cioè l'antinaturalismo e il relativismo culturale. Seguendo l'ipotesi del relativismo linguistico, però, sono stati condotti anche dei programmi di ricerca non ostili all'impostazione naturalistica di gran parte della psicologia. Punto di partenza di questi programmi sono i lavori di E. Sapir e B. Whorf. Di quest'ultimo sono note le ricerche condotte per stabilire l'esistenza di diverse concezioni del tempo in parlanti di lingue che possiedono (ad es. l'inglese) oppure no (ad es. l'hopi) parole, espressioni e forme grammaticali veicolanti ciò che s'intende per «tempo» o per «passato» e «futuro». I risultati delle ricerche di Whorf (1956) sembravano corroborare la versione radicale del relativismo linguistico. Ricerche successive hanno però dimostrato che le differenze nelle abilità di pensiero di parlanti di lingue diverse sono marginali o dovute ad artefatti metodologici. Più di recente l'ipotesi del relativismo linguistico sembra avere riguadagnato credito, soprattutto grazie ad alcuni lavori riguardanti la cognizione numerica di parlanti di lingue in cui esistono pochi termini per designare i numeri. In particolare, si è scoperto che i membri della tribù amazzonica dei Pirahà, la cui lingua possiede solo tre termini numerici («uno-due-molti»), non sono in grado di risolvere alcuni semplici problemi di calcolo. Tuttavia, le difficoltà aritmetiche dei parlanti di lingue con pochi termini numerici non corroborano necessariamente l'ipotesi del relativismo linguistico. Infatti, i membri di un'altra tribù amazzonica, quella dei Mundurukù, la cui lingua non possiede termini per designare numeri più grandi di 5, si sono dimostrali capaci di comparare e di sommare approssimativamente delle quantità numeriche maggiori di 5. Per esempio, bambini e adulti di questa tribù sono in grado di indicare correttamente quale di due insiemi di punti (uno di 20 e uno di 40) è il pili grande. Questi risultati si possono spiegare sulla base del la teoria secondo cui esiste un «senso» del numero, innato e condiviso con altre specie animali, che permette di elaborare numeri approssimati senza ricorrere a simboli o al linguaggio (Dehaene, 1997). Tale senso del numero però non permette di elaborare quantità precise, cioè, per numeri superiori a 3 o 4, non permette di distinguere un numero esatto n dal suo successore n + 1. Secondo questa teoria, i processi di elaborazione di quantità precise (e maggiori di 3 o 4) dipendono dall'acquisizione di un sistema verbale di simboli numerici. Di conseguenza, i parlanti di lingue che non possiedono termini per numeri superiori a 3 o 4 hanno difficoltà a risolvere problemi che richiedono la manipolazione di numeri precisi, come «esattamente 6». In effetti, i Mundurukù sono in grado di risolvere problemi di sottrazione precisa solo quando i termini numerici coinvolti sono inferiori a 5. Per esempio, sanno indicare correttamente che cosa rimane in una scatola, se si tolgono 2 dei 4 punti in essa contenuti. Ma non sanno fare altrettanto, se si tolgono 2 degli 8 punti in essa contenuti. Questi risultati dimostrano che l'assenza di un lessico ben sviluppato per designare i numeri indebolisce la capacità di elaborare quantità precise, ma non intacca la capacità di elaborare quantità approssimate. Il linguaggio quindi sembra avere un ruolo decisivo nell'acquisizione di un'aritmetica esatta, ma, contro l'ipotesi del relativismo linguistico, non sembra avere alcun ruolo nell'emergere delle capacità numeriche di base. La seconda questione (esistono capacità di ragionamento indipendenti dal linguaggio?) rimanda al tema più generale del rapporto tra linguaggio e pensiero. La prima metà del '900 è stata dominata, sia in campo filosofico (il circolo di Vienna) che in campo linguistico-psicologico (il comportamentismo), dalle posizioni che sostenevano il primato del linguaggio sul pensiero, in particolare da quelle che consideravano il secondo un epi-fenomeno del primo. Unica voce contraria a queste posizioni è stata, per molti decenni, quella di J. Piaget, secondo il quale il pensiero logico si sviluppa attraverso l'interiorizzazione delle azioni e non con l'acquisizione del linguaggio, che va considerato solo una delle componenti, assieme all'imitazione differita e all'immagine mentale, di una funzione simbolica generale. La teoria di Piaget è stata sottoposta a severe critiche. É partire dagli anni '60 del '900, soprattutto sulla base dei lavori di linguisti e psicolinguisti che dimostravano l'autonomia del linguaggio come facoltà mentale separata dal resto del sistema cognitivo. Da tali critiche, però, non è riemersa la tesi del primato del linguaggio sul pensiero. Negli ultimi decenni numerose ricerche hanno dimostrato l'esistenza di capacità di pensiero che non dipendono dal linguaggio, dal momento che si manifestano prima o in assenza dello sviluppo delle capacità verbali. In primo luogo, è stato dimostrato che alcune capacità inferenziali si manifestano nel primo anno di vita, cioè prima della comparsa del linguaggio e addirittura prima che compaiano quelle abilità concettuali che, secondo Piaget (1936), sono alla base dell'apprendimento del linguaggio e della capacità di risolvere mentalmente i problemi. Per esempio, attorno a un anno d'età, i bambini traggono inferenze induttive di una certa complessità, come imitare un'azione compiuta da un adulto su un dato esemplare di una categoria (ad es. dar da bere a un cane) usando altri esemplari di quella categoria (ad es. un gatto) ma non esemplari di categorie diverse (ad es. un aeroplanino). Questi risultati dimostrano quindi che, prima di acquisire il linguaggio, i bambini piccoli possiedono concetti come «animale» e «veicolo» e li usano per limitare le loro generalizzazioni. In secondo luogo, vi sono ora numerose prove di dissociazioni patologiche tra capacità linguistiche e capacità di pensiero. Per esempio, gli individui affetti dalla sindrome di Williams presentano buone capacità di acquisizione linguistica, risultando simili a individui che imparano una seconda lingua, ma, al tempo stesso, presentano elementi di ritardo mentale, risultando incapaci di risolvere semplici problemi aritmetici o spaziali. In terzo luogo, la ricerca etologica ha dimostrato che anche animali diversi dall'Homo sapiens sono in grado di risolvere problemi di ragionamento, per esempio compiti che richiedono inferenze transitive o compiti di orientamento spaziale la cui difficoltà per i bambini di età inferiore ai sei anni era stata in precedenza attribuita a carenze di vocabolario spaziale. Riassumendo, dagli sviluppi teorici ed empirici della ricerca degli ultimi decenni emerge un'impostazione contraria a quella che dominava la ricerca nei primi decenni del '900. Anche se l'assunto di Piaget secondo cui il linguaggio non è una facoltà mentale autonoma è ormai rifiutato, la grande maggioranza degli psicologi sembra oggi condividere uno dei punti centrali del suo programma di ricerca, cioè che alcuni processi di pensiero si manifestano prima e indipendentemente dall'acquisizione del linguaggio. VITTORIO GIROTTO |